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Novembre 2020

Senza prospettive di rilancio, con la pandemia a rischio 2 milioni di posti di lavoro

I servizi di Covid-assessment sviluppati da Cerved consentono di stimare gli impatti del Covid19 sui bilanci, sull’occupazione e sul rischio di tutte le imprese italiane.

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Copertina di 'Senza prospettive di rilancio, con la pandemia a rischio 2 milioni di posti di lavoro'

Il Rapporto Cerved PMI 2020 fotografa gli andamenti delle piccole e medie imprese nel 2019 e nella prima parte del 2020, con proiezioni sugli effetti del Covid relative a tutte le imprese italiane. Il focus di questa edizione è sugli impatti della pandemia sul piano occupazionale e sul capitale delle imprese.

Le PMI italiane affrontano la pandemia dopo una ripresa incompiuta in termini di redditività, ma con una solidità patrimoniale senza precedenti

Una simulazione condotta su tutte le società di capitale (730 mila, con una base di 10,2 milioni di occupati, pari al 42% di quelli italiani) indica che, senza le prospettive di un rapido ritorno alla crescita, le conseguenze su occupazione e investimenti potrebbero essere rilevanti.

Il sistema di PMI italiane arriva di fronte all’emergenza Covid dopo un decennio caratterizzato da una ripresa lenta e incompiuta, che ha consentito di recuperare solo parzialmente i livelli dei conti economici pre-crisi finanziaria. Nonostante le difficoltà sui conti economici, la doppia recessione che ha colpito l’economia italiana nel 2008-09 e nel 2011-12 ha innescato un processo di selezione e ristrutturazione che ha reso le PMI più solide dal punto di vista patrimoniale e finanziario.

In termini reali, i ricavi sono tornati oltre i livelli del 2007 (+2%), ma la redditività rimane ampiamente al di sotto: le PMI hanno perso il 19,4% del Mol e il ROE si è ridotto dal 13,9% del 2007 al 10,8% del 2019.  Nel corso degli ultimi anni, per effetto del credit crunch e anche grazie a una serie di misure di incentivo fiscale, la capitalizzazione delle PMI è cresciuta in modo più marcato rispetto ai debiti finanziari con il leverage delle PMI quasi dimezzato (dal 115% al 61%). La politica monetaria espansiva della BCE ha favorito una riduzione di dieci punti percentuali dell’incidenza degli oneri finanziari sul Mol (dal 23% al 13%). Grazie a un maggiore livello di solidità, le PMI italiane sono diventate anche più disciplinate nei pagamenti con i fornitori, con i ritardi medi delle fatture scesi da 14,7 giorni del 2014 a 9 giorni di marzo 2020.

Una crisi senza precedenti che si abbatte sulle PMI, con effetti fortemente asimmetrici

L’emergenza sanitaria in cui è piombato il pianeta nel 2020 per effetto della diffusione del Covid ha implicazioni economiche senza precedenti, sia in termini di natura che di intensità. Le conseguenze che interessano le PMI italiani sono peculiari della pandemia e diverse dalle crisi precedenti: la chiusura forzata di molte attività imposta dal lockdown, la ridotta mobilità delle persone, le norme di distanziamento sociale, i massicci interventi pubblici in ambito monetario e fiscale, i cambiamenti indotti nei comportamenti di persone e imprese per effetto del nuovo contesto (maggiore utilizzo di servizi digitali, smartworking, ecc.). Per tenere in dovuta considerazione tutti questi fattori, Cerved ha lanciato una serie di servizi di Covid-assessment che consentono di stimare gli impatti della pandemia sui bilanci e sul rischio delle imprese italiane. Queste elaborazioni indicano che la pandemia avrà effetti fortemente asimmetrici: per alcuni settori, le conseguenze saranno devastanti, mentre altri (pochi) comparti potrebbero addirittura beneficiare di questa fase.

Nel complesso, i fatturati delle PMI sono attesi nel 2020 in calo di 11 punti percentuali. Di fronte all’emergenza e ai mancati ricavi, le attese sono di una decisa riduzione dei costi da parte delle PMI. Come già successo nel 2009, le PMI taglieranno i costi operativi, soprattutto acquisti di materie prime e semilavorati, riducendo in maniera significativa anche i costi per servizi. Nonostante il blocco dei licenziamenti, le PMI ridurranno anche i costi del lavoro (-12%), sfruttando l’estensione della Cassa Integrazione, misura a cui hanno fatto ricorso moltissime aziende. La decisa riduzione dei costi operata dalle PMI sarà tuttavia insufficiente per evitare una nuova e brusca caduta della redditività lorda, che è attesa in contrazione del 19% tra 2020 e 2019.

Durante il lockdown in forte peggioramento i mancati pagamenti e gli indici di natalità delle PMI

I dati relativi a Payline, il database che raccoglie informazioni sulle abitudini di pagamento di oltre 3 milioni di imprese italiane, offrono un termometro in tempo reale dello stato di salute economico-finanziaria e indicano che le difficoltà delle PMI si sono fortemente concentrate durante la fase del lockdown. La quota di fatture inevase è progressivamente cresciuta dal 29% di gennaio 2020 a un massimo del 45% a maggio, per poi scendere a giugno e luglio (37%), rimanendo tuttavia a livelli ben superiori rispetto a quelli pre-Covid.

Il Covid ha avuto conseguenze fortemente negative anche sulla natalità, con un impatto che ha quasi azzerato la nascita di nuove imprese ad aprile. Dopo la fine del lockdown, il numero di nuove imprese è tornato a crescere su base annua, ma questo non ha consentito di recuperare le perdite dei mesi precedenti: complessivamente, nei primi otto mesi del 2020 sono state perse un quinto delle nuove nate rispetto allo stesso periodo del 2019.

PMI mostrano maggiore resilienza, ma aumentano i livelli di rischio

Il livello di resilienza acquisito dalle PMI fino al 2019 renderà mediamente sostenibili gli indici di solidità finanziaria e patrimoniale, attesi comunque in deterioramento. Il leverage crescerà dal 61% al 68%, mentre il rapporto tra oneri finanziari e Mol crescerà dal 12,8% al 15,5%. Nonostante questo balzo, entrambi gli indici rimangono ben al di sotto dei livelli del 2007. Solo il rapporto tra debiti finanziari e Mol, che crescerà da un multiplo di 3,2 a uno di 4,5, sarà oltre la soglia del 2007, a causa del crollo della redditività lorda e del maggiore ricorso delle PMI ai debiti.

Il Cerved Group Score Impact, che stima l’impatto del Covid sulla probabilità di default delle imprese italiane, indica che la lunga fase di rafforzamento delle PMI si interromperà a causa della pandemia e che il numero di PMI “a rischio” potrebbe quasi raddoppiare, passando dall’8,4% al 16,3% delle società e superando il precedente massimo del 2014. L’intera distribuzione si sposterà verso le classi più rischiose, con il numero di PMI “sicure” che potrebbe dimezzarsi nel giro di un anno.

Impatti fortemente asimmetrici tra i settori

Una delle peculiarità di questa crisi è la sua natura fortemente asimmetrica: la necessità di mantenere il distanziamento fisico, le restrizioni imposte alla mobilità, l’esigenza di mantenere in attività solo alcune filiere durante il lockdown (i servizi “essenziali”) e la necessità maggiore di farmaci e attrezzature sanitarie hanno determinato impatti fortemente differenziati tra i settori economici.

Per evidenziare gli effetti fortemente eterogenei di questa crisi, le PMI sono state raggruppate in quattro cluster, a seconda dell’impatto atteso sui ricavi. In base al Covid-Financial Impact, 13 mila PMI (l’8,4% del campione analizzato che genera il 10% del fatturato), appartenenti a settori della filiera farmaceutica e settori che hanno beneficiato di questa fase particolare (come il commercio online o la distribuzione alimentare moderna), riusciranno ad accrescere i ricavi nel 2020 o a mantenerli stabili. All’estremo opposto, figurano 19 mila PMI per le quali l’impatto del Covid risulterà molto intenso (il 12% delle società, che generano il 10% del fatturato complessivo), con ricavi attesi in calo di almeno il 25% nel 2020: sono prevalentemente società che operano nella filiera turistica, nella ristorazione, nella logistica e i trasporti, in alcuni settori industriali. Le restanti 124 mila si dividono in un gruppo con impatti moderati (58 mila PMI con cali inferiori al 15%, che realizzano circa il 42% dei ricavi delle PMI) e in uno con impatti alti (66 mila con una contrazione compresa tra il 15 e il 25%, il 38% dei ricavi).

Le simulazioni sui bilanci consentono anche di analizzare gli indici dei settori per cui sono attese le performance migliori in termini di dinamica del fatturato. In questi settori la crescita dei ricavi è stata seguita da un miglioramento degli indici di redditività e da conti più solidi. Il commercio online, già ampiamente in crescita nel 2019, supera di gran lunga tutti gli altri nel 2020, con un fatturato in aumento del 23,8%, un forte aumento della marginalità lorda e netta, una riduzione della leva e del peso dei debiti. Tendenze simili per la produzione di specialità farmaceutiche, che sono state favorite dall’emergenza sanitaria, e per settori che hanno visto una domanda in lieve crescita anche nel periodo del lockdown, come la produzione di pasta, la distribuzione alimentare moderna, i prodotti per la detergenza.

Viceversa, per alcuni settori l’impatto della pandemia ha avuto conseguenze drammatiche. Tra questi troviamo tutta la filiera viaggi, sia per turismo che business, penalizzata in maniera notevole dalle restrizioni alla mobilità nel periodo primaverile, ma anche dal ridotto afflusso di turisti stranieri nel periodo estivo. Le contrazioni dei fatturati vanno dal 38,1% al 47,1%, con conseguente riduzione dei margini, che in un caso diventano negativi (agenzie di viaggio e tour operator). La redditività, misurata con il ROA, rimane lievemente positiva solo per le strutture extra alberghiere, mentre il rapporto fra oneri finanziari e Mol cresce in misura significativa per tutti, soprattutto per effetto del calo dei margini. Il leverage cresce ovunque, ma non arriva a valori preoccupanti, dati anche i livelli di partenza: nessun settore supera il 100%.

Con nuove chiusure l’impatto del Covid diventerebbe ancora più severo

La seconda ondata di contagi osservata in autunno ha paventato la possibilità di nuovi lockdown per evitare di mettere sotto pressione il sistema sanitario, come era già successo a marzo. Al momento di redazione del Rapporto, non sono da escludere nelle prossime settimane ulteriori chiusure, che potrebbero costringere un numero non trascurabile di imprese a sospendere forzatamente l’attività.

Cerved ha simulato gli impatti di un secondo eventuale lockdown, che avrebbe naturalmente riflessi molto negativi sul sistema delle PMI italiane. Secondo le simulazioni sui bilanci, in questo scenario più severo i ricavi delle PMI potrebbero contrarsi in termini reali di 16,3 punti percentuali (contro gli 11 dello scenario di riferimento), il valore aggiunto di 26,7 punti (-14,2%) e il rapporto tra oneri finanziari e Mol potrebbe salire al 16,9% (15,5%).

In base al CGS impact, la quota di PMI a rischio di insolvenza crescerebbe di altri 5 punti, arrivando al 21,4%, con un ulteriore spostamento dell’intera distribuzione verso le classi con la maggiore probabilità di default. Il peggioramento non avrebbe effetti uniformi, ma graverebbe soprattutto sulle PMI e sui settori con gli impatti più intensi già nello scenario base. Nei settori più colpiti dal Covid, la presenza di imprese ad alta probabilità di default potrebbe anche superare il 50%.

I costi del Covid e il rilancio delle imprese italiane

Gli interventi messi in campo dal Governo nella fase acuta della crisi hanno mitigato gli effetti sui lavoratori e sulle imprese. Un tema di grande rilevanza per gestire la ripresa è valutare i potenziali impatti del Covid sui posti di lavoro e sulla capacità produttiva nei prossimi mesi, quando cesseranno alcuni degli interventi messi in campo per far fronte all’emergenza.

La monografia è dedicata a un esercizio che stima questi impatti, al fine di fornire informazioni utili sulle politiche da mettere in atto per contrastare gli effetti del Covid sul sistema economico e sociale italiano. L’esercizio utilizza la crisi del 2009 per prevedere gli effetti della pandemia attuale. Offre quindi una stima di quello che potrebbe succedere quando misure come la Cassa Integrazione, il blocco dei licenziamenti e le garanzie sui prestiti saranno interrotte, al netto di eventuali politiche di sostengo e di rilancio straordinarie.

Gli impatti sull’occupazione

Una simulazione condotta su tutte le società di capitale (730 mila, con una base di 10,2 milioni di occupati, pari al 42% di quelli italiani) indica che, senza le prospettive di un rapido ritorno alla crescita, le conseguenze su occupazione e investimenti potrebbero essere rilevanti. A regime, le imprese analizzate potrebbero ridurre il numero di lavoratori di 769 mila unità (circa il 7,5% della base di occupati impiegata da queste imprese a fine 2019), a causa sia dell’uscita dal mercato delle società più fragili (135 mila lavoratori coinvolti), sia dell’adeguamento della forza lavoro al ridotto giro d’affari (633 mila addetti).

Proiettando questa stima al totale delle imprese private – comprendendo quindi anche società di persone e imprese individuali – la perdita potrebbe arrivare a 1,4 milioni di lavoratori (l’8,3% del totale).

Nello scenario più severo, di nuovi lockdown generalizzati, si perderebbero 1,1 milioni di posti di lavoro nelle società di capitale (-10,5%); nel complesso delle società private questo numero arriverebbe a 1,9 milioni (-11,7%). In conseguenza di questi cali, il tasso di occupazione si ridurrebbe dal 44,9% al 42,5% nello scenario base, scendendo fino 41,4% in caso di nuovi lockdown.

Gli effetti sarebbero particolarmente consistenti per le piccole imprese e per quelle che operano nelle costruzioni, nell’industria e in alcuni comparti dei servizi. Nei settori più colpiti – come agenzie di viaggio, strutture ricettive, ristoranti, che potrebbero arrivare a perdere un terzo o più del loro personale – si concentrerebbe circa la metà della perdita occupazionale.

Anche dal punto di vista territoriale, gli impatti sarebbero differenziati, con effetti maggiori nel Mezzogiorno: il numero di lavoratori nel settore privato si contrarrebbe del 9,4% nelle regioni del Sud nello scenario base, del 13% in quello più severo. Le imprese del Sud soffrono di più sia perché maggiormente specializzate nelle attività più colpite dalla pandemia sia perché più fragili finanziariamente. In termini di tassi di occupazione, il divario Nord-Sud non si allargherebbe ulteriormente solo grazie al maggior peso della Pubblica Amministrazione tra gli occupati del Mezzogiorno.

Gli impatti sul capitale

La probabile uscita dal mercato di un numero rilevante di imprese e il ridimensionamento del giro d’affari di molte altre avrà inevitabili ripercussioni anche sul livello di investimenti, a meno che non ci siano attese di un rapido ritorno alla crescita. Secondo le nostre stime, le imprese analizzate potrebbero “distruggere” 47 miliardi di euro di capitale, il 5,3% rispetto al valore delle immobilizzazioni delle società analizzate; in uno scenario severo, la contrazione potrebbe arrivare a 68 miliardi di euro (-7,7%).

Data la natura fortemente asimmetrica della pandemia, la riduzione del capitale risulterebbe differenziata, con le riduzioni più consistenti nei settori maggiormente colpiti dal calo dell’attività economica e altri comparti meno colpiti. Nei più colpiti, come logistica e trasporti, servizi e produzione dei metalli, il capitale si ridurrebbe di quasi il 10% nello scenario più favorevole con picchi del 15% in quello più severo; aziende agricole e chimica e farmaceutica subirebbero invece cali marginali. In termini assoluti, la riduzione più consistente di capitale, 27,6 miliardi (41,5 nello scenario più severo), è stimata nel terziario, soprattutto a causa del forte calo nella logistica e trasporti, che perderebbe più della metà di questo valore.

Una domanda particolarmente rilevante riguarda come fornire finanza alle imprese per far ripartire gli investimenti. Nella fase acuta della crisi lo strumento principale è stato il credito garantito. La gran parte della riduzione di capitale (37 su 47 miliardi) sarà concentrata in imprese colpite duramente dal Covid, che, oltre a ridurre il proprio volume di investimenti, subiscono un maggiore deterioramento degli indici di sostenibilità finanziaria. Per queste imprese risulterà difficoltoso finanziare gli investimenti con debito, perché, anche in presenza di garanzie pubbliche, ne risulterebbe una struttura finanziaria insostenibile.

L’iniezione di risorse nel sistema delle PMI dovrà quindi necessariamente prevedere sia finanziamenti a debito sia apporti di capitale di rischio. Un ruolo importante, quindi, sarà giocato da operatori finanziari non bancari, nei quali il nostro paese mostra ancora un ritardo di sviluppo rispetto agli altri paesi avanzati.

Gli investimenti post-Covid e le tendenze del new normal

La stima di una perdita di lavoratori compresa tra 1,4 e 1,9 milioni e quella di una riduzione del capitale tra 47 e 68 miliardi di euro si basa sull’ipotesi che, una volta cessate le misure di sostegno per far fronte all’emergenza sanitaria, non ci siano prospettive di rilancio per l’economia. Sarà quindi decisivo il Next Generation EU, il piano di finanziamenti per la ripresa dell’Europa con una dotazione di 750 miliardi, che ha messo al centro la sostenibilità e la digitalizzazione.

Secondo gli accordi raggiunti a luglio, all’Italia dovrebbe spettare una “fetta” importante di questa dotazione, 209 miliardi di euro. Le risultanze effettive sull’occupazione e sulle imprese dipenderanno da come l’Italia deciderà di impiegare queste risorse e dalle specifiche misure che verranno messe in atto, che dovranno tenere conto delle tendenze emergenti. Il Covid-19 rappresenta infatti un evento epocale, che cambierà molti paradigmi economici, accelerando alcuni processi già in atto e modificando i comportamenti di famiglie e imprese. Trasformazione digitale, distruzione e ricostituzione delle catene globali del valore, smartworking potrebbero indurre un rapido cambiamento della struttura produttiva, con alcuni settori emergenti in espansione e altri che invece sono destinati a un inevitabile ridimensionamento.

Gli incentivi non potranno prescindere dalle due direttrici previste dal Next Generation EU, digitalizzazione delle imprese e transizione verso un sistema più sostenibile. Un’analisi basata sul Cerved Growth Index – un indice che sintetizza le potenzialità di crescita delle imprese italiane, tenendo conto anche del loro grado di innovazione digitale – indica che sono solo 14 mila (il 9%) le PMI con digital capabilities elevate. Per promuovere la digitalizzazione, è necessario da un lato intervenire sugli ostacoli che anche in passato hanno frenato l’adozione delle tecnologie da parte delle imprese italiane: pratiche manageriali inadeguate, alta presenza di imprese piccole e familiari, scarso peso degli investitori istituzionali. Dall’altro si potrebbe rafforzare il piano di Industria 4.0, che ha negli scorsi anni ha fortemente incentivato gli investimenti in innovazione delle imprese.

La transizione verso un sistema più sostenibile richiederà nei prossimi anni forti investimenti da parte del nostro sistema industriale. La regolamentazione finanziaria cambierà e in molti settori le aziende si troveranno di fronte a un bivio: ristrutturarsi verso sistemi più sostenibili o non riuscire a finanziarsi sul mercato. Questi settori si caratterizzano per una presenza molto elevata di imprese piccole, un aggregato più rischioso del resto dell’economia, che ne limita le potenzialità di investimento. La transizione ambientale richiederà capitali e sarà necessario selezionare gli interventi, per favorire la ristrutturazione delle imprese in grado di creare valore nei prossimi anni.

La politica economica deve guardare a queste direttrici, indirizzando le risorse verso impieghi che accrescano la produttività del sistema-Italia piuttosto che verso forme improduttive che, una volta esaurito il loro impatto diretto, lascino il paese con tutti i nodi irrisolti da sciogliere. Solo intraprendendo un percorso di crescita di lungo periodo si può mitigare gli effetti a breve della pandemia e garantire la sostenibilità del debito pubblico nel lungo periodo.

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