«Il giudizio dei mercati internazionali nei confronti dell’Italia è che siamo sempre un po’ dei sorvegliati speciali – ha affermato Alessandra Bechi, vicedirettore di AIFI (Associazione Italiana del Private Equity, Venture Capital e Private Debt) -: subiamo anche la minima flessibilità sul panorama nostro interno sia politico che economico e ad oggi abbiamo notizia di alcuni commitment internazionali che, in questo momento, sono stati congelati, in attesa di capire come si evolve la situazione italiana. Come industry, di contro, siamo sempre stati molto attrattivi nei confronti dei capitali esteri e in modo quasi esemplare. L’investitore estero, oltre a dare fiducia al gestore che ha dato buoni risultati nel tempo ha anche fiducia nelle prospettive di business e nelle imprese. Lato nostro, continuiamo a promuovere il mercato e a ribadire che i nostri fondamentali sono solidi, al di là delle vicende politiche più altalenanti. Dal punto di vista della domanda e dell’offerta, il numero di aziende eligibili al private equity è fantastica, il che rende auspicabile un avvicinamento all’offerta di capitale esterno. Noi abbiamo 1300 aziende in portafoglio agli investitori e circa 500 investimenti come flusso annuo. Dove sta il problema? Nel matching. Lato domanda c’è ancora molto da fare sul fronte dell’education, sull’informazione, sulla conoscenza di questi strumenti. Anche sul fronte della domanda il dimensionamento non è ancora significativo: se andiamo sugli investimenti di expansion, che sono quelli di minoranza, si parla di circa 300 milioni di euro, pari a una cinquantina di investimenti l’anno. Questo significa che, lato offerta per le PMI, subiamo la mancanza di capitali: la raccolta fondi è l’anello debole del nostro mercato».